La scoperta dell'America: l'euro ha unito l'Europa

Il super dollaro mette paura al neonato euro: ieri la moneta europea è scesa sotto quota 0,86 centesimi. Si tratta del livello più basso toccato dal luglio del 2001

(IL GIORNALE Martedì - 29 gennaio 2002)



Ha avuto un'idea semplice. Ed è stato uno dei pochi a cogliere il vento nuovo che soffia in Europa. Lasciamo perdere per un attimo i dibattito sull'europeismo, gli euroscettici e il peso politico che gli Stati devono avere nell'Unione europea. Un giornalista americano ha realizzato quel che un politico non può compiere e quel che noi giornalisti del Vecchio continente non facciamo mai: ha preso aerei, auto, traghetti, treni e si è fatto un lungo viaggio attraverso dieci dei dodici Paesi che hanno adottato l'euro, per capire l'umore della gente comune, anziché come di solito avviene, dell'establishment che si fa interprete di quel che crede essere la pubblica opinione.
T.R. Reid della Washington Post è partito da un piccolo villaggio finlandese della Lapponia ed è arrivato in un paesotto del sud del Portogallo. Quattromila chilometri di distanza , dieci lingue, dieci culture, dozzine di dialetti: tutto in teoria gioca contro un'Europa unita. Eppure la magia di toccare fisicamente l'euro ha provocato un fenomeno che nessun sociologo aveva previsto: accanto all'identità nazionale, che rimane radicata, è fiorito un sentimento di appartenenza comune.
- Sono orgoglioso di essere francese (o italiano o spagnolo), ma ora mi sento anche europeo-, è la frase che il reporter ha appuntato più spesso sul proprio taccuino, a nord e a sud, nelle città e nelle campagne, tra i giovani e gli anziani. Una rivoluzione culturale le cui implicazioni sono ancora inesplorate e che spiegherebbe, tra l'altro, perché non ci siano state le temute resistenze all'euro, nemmeno in quei Paesi, come la Germania, dove l'accanimento alla valuta nazionale era molto forte.
Il giornalista Usa non si è limitato alle impressioni raccolte per la strada, nei negozi e negli uffici. Passando da un Paese all'altro si è accorto della portata rivoluzionaria dell'accordo di Schengen, che gli ha permesso di viaggiare attraverso dieci Paesi della Ue senza dover mai esibire un passaporto o subire un controllo doganale. Come in America. Ha elogiato il sistema Gsm, di invenzione europea, che ha abolito i confini delle telecomunicazioni. Meglio che in America. Si è accorto dell'imponenza delle infrastrutture nei trasporti e della loro valenza sia commerciale che simbolica: straordinarie opere di ingegneria come il tunnel sotto la Manica o il ponte di 16 chilometri che collega la Danimarca alla Svezia, rappresentano la volontà di unire anziché dividere.
Persino sul piano linguistico gli europei stanno trovando, da soli, una soluzione; accanto alla lingua nazionale, se ne impone una seconda: l'inglese. E poco importa che non piaccia al presidente francese Chirac o che la Gran Bretagna non abbia (ancora) accettato l'euro. Prevale un pragmatismo per certi versi sorprendente: l'inglese è la lingua che si usa per fare affari e per viaggiare. Dunque sarà la lingua dell'Europa dei popoli.
E anche sul piano politico le affinità sono sempre più strette: non solo esistono tendenze comuni (gli anni Ottanta sono stati conservatori, gli anni Novanta progressisti, ora il pendolo sta tornando verso il centrodestra), ma tra i partiti politici nazionali della stessa area le affinità di programma - e le influenze reciproche - sono sempre più evidenti: Forza Italia assomiglia al Partito popolare spagnolo che guarda alla Cdu-Csu tedesca. L'Ulivo s'ispira alla - gauche plurielle - francese, che si sente vicina alla coalizione - rosso-verde - al potere a Berlino.
Insomma, agli occhi della Washington Post, gli europei sono, grazie all'effetto taumaturgico dell'euro, più uniti e consapevoli ora di quanto non fossero il 31 dicembre 2001. Anche in un Paese come la Danimarca, che un anno e mezzo fa respinse con un referendum l'adesione alla moneta unica, e che adesso, se potesse, voterebbe sì. O la Gran Bretagna e la Svezia destinate ad arrendersi all'euro.
Secondo Reid è l'embrione della futura identità europea. Forse esagera. O forse no. Di certo nell'aria si respira una coscienza nuova, che sembra sfuggire sia all'europeismo fideistico sia all' -euroritrosia- di stampo nazionalista. E di cui la classe politica continentale, prima o poi, dovrà farsi interprete, con implicazioni oggi imprevedibili. Il futuro dell'Europa potrebbe essere tutto da inventare.


Marcello Foa
marcello.foa@ilgiornale.it


Per ritornare al menu'