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Il dolore era calato come un manto gelido nel grande salone di pietra.
Gli occhi dei musici e dei danzatori, fino a quel momento intenti a provare lo spettacolo della sera si volsero contemporaneamente verso Maxmus che li osservava tranquillo.
Le sue parole danzavano ancora nell’aria:
“Mi spiace, ma il vostro compagno è stato ucciso qualche giorno fa da alcuni tagliagole, giù alla locanda....”
Non c’era tristezza o compassione nella sua voce piatta e distaccata.
Dubric fu il primo a trovare il coraggio di parlare:
“Per il Dio Luce, Monsignore... E’ sicuro?”
L’inquisitore ebbe un moto d’ira, ma lo trattenne.
“Era un giovanotto sottile, con i capelli rossi come il fuoco: giusto? Lo aveva intravisto una delle guardie delle porte della città, quando era arrivato, ma gli era sembrato un normale viaggiatore... E’ stato sfortunato: qualcuno ha notato l’insegna della vostra congregazione e dato che per certa gente è molto preziosa, non ha fatto altro che tagliargli la gola e rubargliela...Tutto sommato Castrum Montana è una città piuttosto tranquilla, ma ci sono dei luoghi che è meglio evitare... Come la locanda dove è finito il vostro compagno, per esempio.”
Miriel inspirò a lungo, poi disse lentamente:
“Potremmo avere il suo corpo? I suoi dei erano misteriosi come lui, ma vorremmo egualmente celebrare un rito in suo ricordo...”
L’Inquisitore scosse il capo:
“Nemmeno questo è possibile. La milizia cittadina ha trovato il suo cadavere qualche giorno fa, e lo ha subito cremato. E’ questa la legge... E forse è meglio così: a quanto mi hanno riferito non era in buono stato... In ogni caso abbiamo preso e giustiziato i suoi assassini ed ho recuperato la vostra insegna... Mi spiace non poter fare di più...”
Tese la mano guantata sulla quale brillava il complicato medaglione d’argento che indicava la Congregazione dei Musici.
Nessuno si avvicinò per prenderlo e l’uomo lo lasciò cadere su di una panca di legno.
Il tintinnio che produsse fu come un lamento: gli occhi color dell’oro fuso, che fino a quel momento avevano brillato nella mente e nel cuore di tutti, animando la speranza, si chiusero, lasciando il vuoto.
Maxmus si strinse nelle spalle, il volto di pietra impassibile poi, avvolgendosi nel mantello di pesante raso nero si avviò su per la scalone centrale della sala.
“Un attimo ancora, Monsignore...” era la voce calma e modulata di Miriel.
Maxmus si voltò, incuriosito.
La Cantatrice, gli occhi fissi in un punto lontano gli si avvicinò, tenendo tra le braccia - come un bambino in fasce, la cornamusa di Caled..
Uno strumento prezioso ed antico, la sua unica ricchezza, il suo unico amore.
“Ti prego, Monsignore... Deponi questo strumento sulla tomba del nostro giovane compagno, perché lo vegli nei tempi a venire.”
“Non esiste tomba, donna. Le sue ceneri sono state disperse.”
“Ed allora falla bruciare e spargi al vento anche questa cenere: lì si ritroveranno e canteranno in eterno la loro canzone...”
Maxmus aggrottò le sopracciglia e fissò gli occhi di ghiaccio in quelli di fumo di Miriel. Forse sapeva, forse immaginava, forse ancora sperava... Ma lo sguardo inquisitore non riuscì a scorgere nulla.
L’uomo annuì bruscamente poi, prese con delicatezza la cornamusa e tornò a salire su per le scale.
Nessuno dei girovaghi chiese a Miriel il perché del suo gesto, e la donna rimase ai piedi dello scalone, il volto fiero, a scrutare la figura che si allontanava: l’aura dorata era un filo sottile, impercettibile, mentre quella nera era viva e pulsante, come il cuore del male.

Le ombre oscure della notte avevano già ammantato le cime delle montagne invalicabili: dalle strette feritoie della sua stanza Caled riusciva a mala pena a scorgerne alcuni sprazzi dai contorni indefiniti.
Faceva freddo: si sedette sul pagliericcio, stringendosi sulle spalle la rozza coperta di lana che aveva trovato nella stanza quando, quella mattina, vi era stato trasportato.
Si chiese per la millesima volta che cosa ne sarebbe stato di lui, e per la millesima volta si rispose che qualsiasi fosse stata la sua sorte, non sarebbe certamente stata piacevole Anche se allora erano una semplice eco lontana, sormontata dal dolore assoluto provocato dagli strumenti con cui il Mastro Carnefice infieriva sul suo corpo, le parole dell’Inquisitore, le sue domande incalzanti, talvolta frenetiche, gli erano restate fisse nella mente.
E con una minestra calda nello stomaco ed il dolore alle membra attutito dalla pozione che gli era stata somministrata, quelle parole avevano assunto un senso compiuto, e gli avevano spiegato con chiarezza perché un potente e temuto inquisitore si fosse accanito in modo così totale su di lui, un semplice musico.
Il suo sguardo corse di nuovo verso le montagne e rabbrividì: tutto sommato se quello che Maxmus temeva era la verità, morire sarebbe stato un ben misero male.
La porta in fondo alla stanzetta si aprì senza rumore e un’ombra silenziosa scivolò dentro. “Hai freddo, Musico? Sei fortunato... E’ solo il tuo corpo ad essere morso dal gelo, e non la tua anima, non il tuo cuore...”
“Come te, mio signore...- sussurrò Caled, senza alzare la testa - E’ davvero così grave? - aggiunse poi, titubante.
Maxmus si coprì gli occhi con una mano, come volesse scrutare lui solo, ancora una volta, la verità che portava racchiusa dentro di sé.
“Sei così simile a me, musico...Così simile come la notte lo è con il giorno ed il gelo con la fiamma... Eppure mi sembra di conoscerti da tutta l’eternità, più ancora che se tu fossi mio fratello... E questo non è possibile, e mi spaventa.”
Tirò fuori da sotto il mantello la cornamusa che Miriel gli aveva consegnato poche ore prima e la porse a Caled.
“Questo e questo solo è il tuo mondo, musico. Questo strumento, i tuoi compagni giù che in questo preciso momento stanno preparandosi al loro spettacolo, i vostri carri. Cosa hai a che fare tu con un Eroe, come me, schiacciato dal fardello di un’anima non sua, strappata ad un altro con le arcane arti della magia, solo per poter combattere una guerra assurda?”
La sua voce, per la prima volta dopo tanti anni, era venata dalla disperazione e lui non sembrava più l’arrogante e potente signore della Fortezza di Nimia, ma solo un uomo sfinito, straziato da un dolore troppo grande e troppo antico.
Ma Caled non poteva accorgersene, intento com’era a riempirsi gli occhi e il cuore dell’immagine della sua cornamusa, della sua essenza: ad accarezzarne ogni singolo componente, a cercarne con ansia e timore un graffio, una lacerazione, un velo opaco sulla sua perfezione immacolata.
Con le dita tremanti si portò la canna lavorata alla bocca, e come baciasse un’amante vi soffiò dentro, per dare ancora una volta la sua vita a quello strumento che era la sua stessa vita.
Il suono parve emergere dal nulla, e sembrò dapprima un gemito sottile.
Poi pian piano divenne il canto di un’anima impaurita e sola e infine dispiegò le sue ali maestose per trasformarsi in un inno d’amore e trionfo, di vita e vittoria. Di eternità.
L’uomo e lo strumento erano diventati una cosa sola, e parevano risplendere, la materia fusa nel suono, l’amore venato dal dolore.
Maxmus aveva osservato la scena dapprima contrariato, poi sprezzante.
Ma ne era stato conquistato a poco a poco per restarne, alla fine stupefatto.
Perché i suoi occhi di Eroe contemplavano l’impossibile: mentre Caled suonava assorto e rapito il suo prezioso strumento, attorno al suo corpo erano visibili due Aure. Ed entrambe erano d’oro scintillante.

“Per tutti gli dei della Notte, dove si saranno andati a ficcare quei sudici venditori di Narn? Magari in qualche stanza a rubacchiare una manciata d’argento per poi far ricadere la colpa su di noi... Che il Dio del Fuoco se li inghiotta: non mi sono mai piaciuti, dal primo momento che li abbiamo incontrati...”
Hyede, con indosso l’elegante costume di pelle e seta che utilizzava durante le rappresentazioni afferrò uno sgabello di legno e lo scaraventò contro un muro.
Miriel, avvolta nel prezioso abito grigio ricamato d’argento ricordo di un tempo perduto, strinse gli occhi, ma non cercò di calmare la furia del suo giovane compagno.
La rappresentazione stava per iniziare e, come se non fosse bastata la tragica morte di Caled, adesso ci si metteva anche la scomparsa dei sei ballerini.
Sembravano svaniti nel nulla.
Un suono breve e nervoso pervenne dalle dita livide di Silneus.
“Si, può essere pericoloso “ rispose Dubric preoccupato.
Ancora una serie di suoni, secchi e decisi.
Il Bardo sollevò una mano, tentando di sorridere rassicurante.
“Non credo che si siano serviti di noi per introdursi al castello... Dopotutto come potevano sapere che saremmo giunti fin qui, quando si sono aggregati alla nostra compagnia?
Probabilmente hanno commesso o stanno commettendo un furtarello, ma no, non credo che la cosa fosse premeditata.”
Hyede abbandonò le bacchette con cui suonava i suoi drums dai suoni cupi e, spinto da un impulso trasse dalla propria sacca la corta daga di acciaio brunito che in tempi ormai lontani era stata la sua fedele compagna e la sua unica speranza di un futuro. Qualsiasi esso fosse.
Miriel socchiuse gli occhi, silenziosa, e ascoltò le voci sottili delle ombre che sussurravano piano le loro storie.
E sentì il gelo stringerle il cuore.

“Non conosco il suo nome, né so chi fosse... Lo vidi a malapena, ero solo un bambino. Ma ricordo le sue grida e le sue maledizioni mentre lo trascinavano in catene... Era sporco e ferito: quando lo stesero sull’altare dell’Ultimo Dio bestemmiò come un ossesso... I sacerdoti gli si avvicinarono... Sento ancora l’eco agghiacciante del suo urlo. Quello che accadde in seguito non lo so: so solo che d’un tratto mi ritrovai solo e impaurito, immerso nella sua anima laida...
L’inquisitore parlava lentamente, gli occhi di ghiaccio fissi in un punto troppo lontano. “E’ un abominio, ma solo un Eroe dalle due anime poteva sperare di entrare nelle Terre Oltre e combattere alla pari con i Bedai. Quelli che partirono non tornarono, lo sai: tu stesso suoni le antiche ballate che raccontano le loro gesta.
Quelli che non partirono restarono di guardia,....”
“... Alle ultime porte che ancora collegano i due regni, vero monsignore? E qui a Castrum Montana ce n’è una. Cui sei incatenato tu.” Sussurrò Caled a mezza voce.
Maxmus parve non sentirlo e continuò con voce lenta e triste:
“...ad attendere un segnale oltre la porta ed a temerlo; a vivere una vita immensamente più lunga di quella degli altri uomini e soffrirne attimo dopo attimo.
E raggiungere la sera della vita prendendo per mano un bambino, accompagnarlo in un tempio nero dove un antico sacerdote gli darà una nuova anima, soffierà un terrificante potere nella sua bocca e lo condannerà in eterno....”
L’inquisitore sospirò poi aggiunse:
“Hai ragione tu, musico: sono incatenato a questa porta, e la chiave che collega i due regni è dentro di me, la nutro con la forza delle mie due anime. Purtroppo, spesso l’anima di fango di quell’uomo ignoto ruggisce la sua disperazione immortale e lotta per fuggire: questo indebolisce il mio potere e la forza che tiene chiusa la porta.
E c’è sempre il pericolo che qualche Bedai riesca ad intrufolarsi attraverso i Valichi Lontani: potrebbe approfittare della mia debolezza ed aprire il varco o per lo meno tentarlo...”.
“E’ mai successo, mio signore?”
“Non qui, mai nei tempi innumerevoli che sono passati da allora. Ma gli altri guardiani avevano due anime risplendenti e non l’abominio che mi divora... E’ questa la mia eterna dannazione, questo è il mio incubo eterno.”
“Adesso lo so, monsignore: il dolore che ti strazia è immensamente più grande di quello che ho provato nelle tue segrete.” disse lentamente Caled, cercando gli occhi di Maxmus. L’altro ricambiò lo sguardo, e gli occhi gelidi e disperati dell’Inquisitore si scolpirono indelebilmente nella mente e nel cuore del giovane musico.
“C’è un prezzo da pagare, quando si ruba l’anima ad un altro, anche se si tratta di un ladro di strada. E questo prezzo e grande quanto il valore dell’anima stessa.” disse Maxmus asciutto.
Caled, seduto sul pagliericcio della stanza gelida abbassò gli occhi e si guardo le mani bianche, ferite, venate d’azzurro.
“Era bella come il sole al mattino e fresca come la rugiada - disse d’un tratto, con un filo di voce, gli occhi velati di lacrime a fissare un ricordo lontano- E mi amava. Eravamo solo due ragazzini, ma io ero stato venduto al monastero di Onissac: lì regnavano la violenza e la follia e vi si adorava un Dio Inesistente fatto di musica e fumo. Ci scoprirono e ci portarono via: io ero un novizio, uno di loro: si limitarono a frustarmi ed a spalmare di sale le mie ferite... Ma lei era solo una ragazzina, senza valore, senza difese...La sacrificarono al loro Dio, battezzando col suo sangue questa cornamusa.
Quella notte, pazzo di dolore, diedi fuoco al monastero poi, nel caos che ne seguì riuscii ad impossessarmi della cornamusa ed a fuggire. Non so che cosa sia successo... Ma lei è lì, e so che quando suono quel prezioso strumento che la racchiude le nostre due anime si riuniscono.” Il silenzio scese nella stanzetta.
Ma fu un attimo: una serie di colpi si abbatterono sulla pesante porta di legno.
Caled e Maxmus si alzarono in piedi contemporaneamente: in quell’istante la porta si spalancò ed apparve il viso stravolto dalla paura di una delle guardie del palazzo.
“Invasione Bedai, monsignore. Tradimento” gridò con quanto fiato aveva in gola.
Dalle scale arrivavano urla e rumori di battaglia.
Il viso di Maxmus divenne di cera, gli occhi acuminati come lance.
Si voltò di scatto verso il musico, e lo guardò intensamente, decidendo in quegli interminabili istanti sia del destino del giovane che quello dell’intera Contea.
“Vieni con me - disse d’un tratto - Scopriamo insieme se è ancora tempo di Eroi...” e si avviò di corsa, impartendo ordini secchi e precisi.
Caled rimase per un istante a fissare il punto dove fino a pochi istanti prima era Maxmus, poi risolutamente si gettò sulle spalle il mantello nero che l’Inquisitore aveva lasciato cadere, afferrò la sua cornamusa e corse verso la battaglia.

Hyede sembrava danzare nell’aria, mulinando come una saetta in un cielo notturno la sua daga lorda di sangue fetido.
L’enorme Bedai lo sovrastava per mole e stazza ed il suo fetore era nauseabondo. Il suo corpo putrescente mutava, pareva scomparire d’un tratto per poi ricomparire in una nuova forma e in altre mille: ora serpente ora mulinello di braccia armate, ora abominio liquamoso ora guerriero contorto.
Questa era la mortale caratteristica della plurimaterialità Bedai.
Ma il giovane Hyede, il cui nome un tempo era Arkenos il Selvaggio, aveva visto le arene di Parr ed aveva dovuto impararne sulla sua pelle le regole atroci: il suo cuore era saldo e il braccio sicuro in ogni affondo della carne fetida del mostro.
La sala che avrebbe dovuto essere il loro palcoscenico era diventata un campo di battaglia: altri due guerrieri Bedai, contorti e giganteschi, combattevano con furia assassina contro un drappello di guardie, mentre urla, fumo e rumori provenivano da ogni angolo del palazzo. Miriel e Dubric, immobili e con gli occhi chiusi, intessevano le loro litanie di forza, accanto a loro Silneus agitando le sue dita sottili emetteva arcani suoni che le dirigevano poi verso Hyede e verso i soldati impegnati nella battaglia.
Il caos era scoppiato dal nulla pochi minuti prima, quando un drappello di soldati del palazzo aveva fatto irruzione nella sala, trascinando con sé tre dei sei ballerini scomparsi.
“Credo proprio che l’intero spettacolo lo farete nelle segrete del forte “ aveva detto feroce il Capo delle guardie, rivolto a Dubric, - E che dovrete spiegare al monsignore come mai tre dei vostri ballerini erano finiti nel vecchio passaggio sotterraneo del castello.... “ ma la sua voce gli era morta in gola quando questi ultimi avevano spezzato senza fatica le catene che li legavano e soprattutto gli incantesimi che mascheravano la loro vera natura.
Quella di Bedai.
Hyede, già pronto a vendere cara la pelle contro i soldati che lo avevano circondato era stato il primo a rendersi conto del pericolo mortale che incombeva su di loro.
Con un balzo frutto di antichi, massacranti allenamenti mai dimenticati aveva fatto un’acrobatica capriola nell’aria ed era atterrato di fronte ad uno dei tre mostri che stava squartando il Capo delle guardie e si accingeva a ghermire Miriel.
Senza attendere un solo istante aveva attratto la sua attenzione e dato inizio al duello più difficile e mostruoso della sua vita.
Ed intanto Dubric e Silneus avevano raggiunto la Cantatrice ed i tre, evocando antichi poteri avevano cominciato a salmodiare gli arcani mantra di protezione.
Dal cortile provenivano rumori di armi e grida agghiaccianti, mente le prime lingue di fuoco rosseggiavano nel cielo ammantato di sera.
In quel momento Maxmus era comparso in cima alle scale: Miriel parve percepirne la presenza, perché aprì di scatto gli occhi color del fumo e disse con voce chiara e sicura:
“Non restare qui, mio signore: noi quattro e le tue guardie siamo in grado di controllare il nemico: ma ci sono ancora tre Bedai in giro. Non so che cosa cerchino, ma qualunque cosa sia ti prego, non permettere che ci riescano...”
I suoi occhi non si fermarono o non si vollero fermare sulla figura sottile, ammantata di nero che comparve alle spalle di Maxmus: senza un sorriso chinò la testa e ricominciò a salmodiare ed a tessere la tela di forza che brandello dopo brandello andava a ricoprire Hyede e le guardie, proteggendoli dai colpi mortali delle armi nemiche.
Maxmus rimase in cima alle scale ancora per un istante, poi prese da una panoplia appesa al muro due preziose spade appartenute ai Reggitori Antichi e ne porse una a Caled, che con un sorriso triste la prese e la strinse forte nel pugno.
Poi insieme corsero verso i camminamenti che conducevano alla Torre Remota, dove gli Antichi Sacerdoti avevano sigillato la Porta Montana, il ponte che congiungeva il regno antimateriale dei Bedai al mondo di Rea.

Maxmus e Caled correvano nella sera, quasi senza accorgersi del fumo e delle urla dei soldati che cercavano di spegnere le fiamme appiccate dai guerrieri Bedai come diversivo per poter scoprire il passaggio che portava alla Porta Montana.
Dalle voci che avevano sentito durante il tragitto, pareva che uno dei Bedai fosse stato individuato nella Torre Sud, e che gli Incantesimatori erano in arrivo per proteggere i soldati durante lo scontro.
Ne restavano due: forse in grado di percepire il richiamo della Porta.
Man mano che si avvicinavano al luogo sacro e temutissimo, baluardo di vita e ponte di morte, le due aure di Maxmus avevano cominciato a risplendere, fino a diventare visibili, nella loro agghiacciante maestosità.
La colonna di luce nera era immensa ed il suo sforzo di espandersi e dilagare vittoriosa nel corpo di Maxmus era quasi palpabile. Ma ancora, tenace e feroce, la corda d’oro, ormai sottile come un filo di fumo, continuava ad avvolgerla nelle sue spire, frenandola nella sua espansione.
Ed era la sua energia che spingeva Maxmus a correre, ad affrettarsi verso la Porta Montana per rafforzarla con la sua vicinanza ed impedire alle arti Bedai di abbatterla per spalancare l’ingresso di Rea alle orde assassine.
Finalmente raggiunsero l’ultima rampa del camminamento. L’ombra della torre svettava imponente sulle antiche mura, costruita in tempi immemorabili contro il fianco della Montagna per custodire il passaggio, eterno monito per il Reggitore del Regno a non abbassare la guardia.
Mai.
La luce del giorno ormai aveva ceduto il passo alle ombre contorte della sera, e nel cielo vuoto di lune non splendevano ancora le stelle.
I guerrieri Bedai parvero spuntare dal nulla: un istante prima c’era il vuoto e il camminamento lastricato di pietra.
Un istante dopo c’erano due esseri contorti e putrescenti che erano riusciti a raggiungere la loro meta.
Maxmus si fermò di colpo, il volto di pietra, calmo, come se quella che stava contemplando non fosse la fine di tutto il suo mondo.
“Sta’ dietro di me, mio giovane amico: vedrai come muore un eroe.” disse con voce gelida, ed un sorriso stanco.
Si eresse in tutta la sua persona e sguainò la spada brunita che aveva stretto in pugno durante tutta la salita e si parò innanzi ai guerrieri Bedai che emettendo un suono animale gli si scagliarono contro.
Caled, alle sue spalle, vide la colonna di luce nera risplendere e ruggire trionfante, e per un istante parve non esserci più chiarore alcuno.
Ed allora il musico, spinto da un impulso intimo avvicinò la bocca alla sua cornamusa e suonò per l’eroe che doveva ritornare.
Le sue due aure splendevano come il sole ruggente del giorno...
... e il sottilissimo filo di luce dorata che circondava la colonna di luce nera attorno a Maxmus scintillò d’un tratto, si contrasse maggiormente e quindi esplose in un mare di gemme.
Caled vide vivere le leggende che aveva cantato in tutta la sua vita: smagliante nella corazza della sua anima trionfante Maxmus danzava contro gli esseri che rappresentavano la negazione della sua stessa natura.
...”Oh ti dirò che un solo eroe val cento soldati e la sua spada sarà il sole che ti benedirà danzando sul male che viene....”
Questo aveva cantato, questo vide.
I due guerrieri Bedai combatterono con la disperata ferocia di chi non può rassegnarsi a perdere lo scopo della sua esistenza ad un passo dal suo compimento.
Ma la spada di Maxmus non ebbe pietà e quando al termine della lotta questi si voltò verso Caled, era lacero e ferito, ma nei suoi occhi brillava una luce di gioia che sembrava illuminargli il viso.
Il musico modulò una nuova canzone, perchè l’Eroe era tornato.
L’Inquisitore senza curarsi dei due corpi dei Bedai che giacevano, osceni e putrefatti sulle lastre di pietra del camminamento si avviò verso Torre Remota, per accertarsi dello stato della Porta Montana.
Dopo qualche passo volse la testa per chiamare a sé il musico: fu allora che si accorse che c’era ancora un ultimo soffio di vita, in uno dei due nemici caduti.
La lancia forgiata nelle tetre fucine Bedai, in grado di trafiggere anime e corpi, partì veloce e mortale, inarrestabile verso il chiaro bersaglio della testa di Caled.
Gli occhi gelidi dell’Inquisitore guardarono le due aure splendenti sul giovane, poi seguirono la lancia per ogni infinitesimo tratto del suo tragitto e prima ancora di comprendere già sapeva quale destino stava per compiersi e perché.
Volteggiò quasi nell’aria gelida, superando gli orrendi corpi martoriati dei guerrieri Bedai immersi in una pozza si sangue fangoso e puzzolente.
Era maestoso nel suo volo di morte e quando la lancia lo trafisse si bloccò un istante a mezz’aria, come se il tempo stesso si fosse fermato.
Gli occhi sbarrati e limpidi di Caled lo videro stagliarsi contro il cielo illuminato dalle fiamme, le braccia spalancate, la testa reclinata da un lato e ed il sangue che cominciava a sgorgare dalla ferita mortale.
Ancora una volta gli occhi di ghiaccio lo incatenarono a sé: e un istante prima di chiudersi parvero sorridere.

Caled, era in piedi sul torrione più alto della Fortezza. Il vento furioso gli scompigliava i capelli color del fuoco e sembrava che fiamme divine gli incoronassero il capo. Laggiù, in fondo, verso l’imbocco della valle, i carri che si allontanavano erano minuscoli come schegge di carbone sul fondo di un paiolo.
Per un istante, un solo lungo istante provò l’irrefrenabile desiderio di correre giù dalla fortezza, inseguirli, raccontare loro ogni cosa, asciugare le loro lacrime e cancellare il loro lutto per lui, il musico scomparso.
Ma due gelidi occhi di ghiaccio, scolpiti nella sua mente lo fissavano, e lo avrebbero fissato, ora teneri ora inquieti, ora dolci ora folli, per sempre, per tutto il resto della sua vita.
“E allora, giovane Caled, è ancora tempo di Eroi?” gli aveva sussurrato.
Le sue parole sembravano impastate dal sangue che gli usciva a fiotti dalla bocca e Caled, annuendo, aveva premuto le labbra contro le sue, ed aveva aspirato quell’essenza primeva che lo avrebbe incatenato, per sempre, alla Porta.
Chiuse gli occhi bagnati di lacrime.
Si strinse al petto la sua cornamusa e, mentre il vento gli ululava attorno, avvicinò la bocca alla canna dello strumento.
“E’ sempre tempo di Eroi, amico mio.” Sussurrò piano.
Poi, dall’alto della Fortezza, suonò la sua ultima canzone alla libertà.


IL TEMPO DEGLI EROI
di AnnaMaria Bonavoglia

Illustrazioni di
Dalmatius P. Frau